intervista a AGNÈS DESARTHE

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Sonia de Leusse-Le Gouillou, intervista a Agnès Desarthe.

SLG: L’ironia è la grande costante delle sue opere. È, a mio avviso, quello che lega la sua produzione per adulti e quella per ragazzi. Lei riesce, per esempio, a ottenere sempre un effetto sorpresa. Le serve per disorientare il lettore?
AD: No, devo confessare che non penso al lettore quando scrivo. Se ci pensassi, credo che non riuscirei a scrivere, perché sarei come un’adolescente davanti allo specchio, che si guarda, che si domanda come la vedranno gli altri… Non bisogna pensare allo sguardo altrui. C’è una frase di Virginia Woolf che amo e che è liberatrice: «a che pro scrivere se non ci si rende ridicoli?». Se ci interrogassimo sull’opinione del lettore, la questione del ridicolo ci ucciderebbe. Io penso alla lettrice che sono mentre scrivo, e mi piace essere sconvolta, sorpresa, stravolta.

Quindi, nei miei romanzi, cerco di creare la stessa sorpresa che la vita ci propone.

SLG: Alcuni dei suoi personaggi si ritrovano in situazioni clownesche. Lei mescola ironia e drammaticità, personaggi comici e personaggi tragici.
AD: Questo equilibrio precario è emblematico della condizione umana che mi sembra completamente assurda. In modo bizzarro, questa tensione mi rende allegra, perché mi dico che bisogna godersi la vita! Secondo me, essere viva, vuol dire essere un clown, ma un clown triste perché moriremo. La tristezza e la gioia sono presenti simultaneamente.

SLG: È questo rapporto ambiguo con il mondo ma anche con la lingua, che esplora nei suoi romanzi? Per esempio in La plus belle fille du monde, la narratrice, Sandra si rende conto del tradimento delle parole. Questa situazione riflette il suo rapporto con la scrittura?
AD: Sì, ho provato davvero questo sentimento di delusione nei confronti della lingua, e specialmente davanti alla bellezza; lo scrittore è sempre un po’ «inferiore».
Con la lingua, si corre il grande rischio di cadere in qualche cliché dell’immaginario collettivo e linguistico, di associare dei pezzi di lego già assemblati. Bisogna fare uno sforzo d’immaginazione, provare a creare delle reazioni chimiche tra le parole.

SLG: Lei stabilisce dei parallelismi tra le parole e le emozioni, «creando dei reticolati di senso inediti». In Le Principie de Frédelle, costruisce dei ponti tra l’infanzia e l’età adulta. Può spiegarci la sua personale nozione d’infanzia e cosa essa evoca per lei?
AD: L’infanzia assomiglia alla barbarie. L’educazione, che descrivo come un caos paranoico, è una forma ben riuscita di repressione. Ma cosa rimane in noi di questa repressione? Ci fa passare con successo dallo stato animale allo stato umano o conserviamo qualche postumo dell’animale ferito? La crescita è un fenomeno a incastro, come le matriosche: il piccolo, incastrato nel medio, e poi nel grande.
La coscienza di questi incastri mi permette di realizzare questo gioco di passerelle. Metto in scena le tensioni tra bambini e adulti perché, secondo me, queste due età sono legate dal fatto che una delle matriosche resiste all’interno dell’altra.

SLG: Avrei voglia di parlare di un’inversione tra i suoi personaggi adulti e quelli adolescenti. Si dice che gli adolescenti si trovino in uno spazio d’inerzia. Ora, mi sembra che siano piuttosto gli adulti che si trovano in questo stato nei suoi romanzi.
AD: Assolutamente. Questo mi fa pensare a una domanda che mi hanno fatto dei giornalisti su «Come avviare i bambini alla lettura?» Io ho risposto semplicemente, siamo noi che dobbiamo leggere per primi. Se vostro figlio vi vede assorti nella lettura, forse avrà la curiosità di fare lo stesso.
I giornalisti mi hanno risposto: «Ma se a noi non piace leggere?» Se a voi non piace leggere, perché volete che vostro figlio lo faccia? La lettura, è piacere libero, individuale, appagante, come il piacere deve essere. Peraltro, per tornare alla sua domanda, è vero che si può avere quest’impressione di inversione. È il ricordo che ho della mia adolescenza. Mi ricordo di quella forza, di quell’appetito.
Lo scrivere per i bambini radicalizza questo fenomeno, infatti la domanda «Possiamo scrivere su tutto per i bambini?» è ricorrente nell’ambiente della letteratura per ragazzi. Io invece penso il contrario, possiamo scrivere su tutto per i bambini, ma non per gli adulti.

SLG: Si autocensura di più nei romanzi per adulti?
AD: Mi autocensuro e mi censurano. Mi sembra di trovare qui quel rapporto di inversione. Una delle difficoltà che ho trovato nel momento in cui cerco di immaginarmi il mio pubblico – quando si autoconvoca- una delle cose che per me definisce molto chiaramente la frontiera tra bambini e adulti, è quello che gli adulti sanno, o almeno si presume che sappiano. Quando ci si rivolge ai bambini, loro chiedono «Perché?». I bambini vogliono capire, fanno delle domande, sanno quello che non sanno. Possiamo quindi dire tutto, trattare qualsiasi soggetto.
Per esempio, se decidessi di scrivere un libro sulla letteratura o sulla tecnica letteraria e andassi a incontrare Olivier Cohen, alle Édition de l’Olivier, per annunciarglielo, mi risponderebbe che Marthe Robert ha già lavorato sull’argomento. Mentre senza aver avvertito il mio editore dell’École des Loisirs, una mattina gli ho presentato La plus belle fille du Monde – che parla di tecniche letterarie e di romanzi – e sì! È davvero diventato un libro! Esiste anche la questione dei formati. Immaginate di essere uno scrittore che ha scritto un libro di cinquanta tre pagine: nessuno lo pubblicherà. È una questione di marketing, bisogna vendere i romanzi. Nella letteratura per ragazzi ci incoraggiano. Tutti i formati sono possibili. Il pubblico è curioso, ha orecchie e occhi grandi e aperti. Si può parlare di morte o di bellezza.
La mia impressione è, quindi, che nella letteratura per ragazzi ci sia molta più libertà dal punto di vista del formato, del tono e dei generi. È la ragione per cui uso la letteratura per ragazzi come un luogo di privilegi e di contrabbandi. In essa godiamo di un’apertura maggiore, ed è per questo che non penso che sia una punizione per i miei testi trovarsi in una collana per ragazzi. Se non lo fossero, non esisterebbero.

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